Il cielo stava cadendo e si macchiò di sangue / Ho sentito che mi chiamavi, ma sei scomparso nella polvere. Su per le scale, dentro il fuoco / Su per le scale, dentro il fuoco.
Con questo inizio musicale vi do il benvenuto al nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone.
Ci sono quei momenti fissi nel tempo che fanno rallentare il mondo e lo cristallizzano, dove eravate l’undici settembre, non serve nemmeno citare l’anno, quando avete sentito la notizia? Ecco, intendo uno di quei momenti così. Persino gli americani, che hanno la propensione a trattare e a volte rimodellare la loro Storia utilizzano il cinema, ci hanno messo un po’ per affrontare l’argomento direttamente.
Nell’arte in generale è stato complicato fare i conti con quanto accaduto a New York e Washington, ma quello non lo cita mai nessuno. Uno dei primi esempi che ricordo è la storia dell’Uomo Ragno ambientata durante la tragedia, per altro ancora oggi, l’unico fumetto che il suo autore John Romita Junior firma gratuitamente, facendo saltare la fila a tutti e battendosi il pugno sul petto (storia vera).
Nel cinema? Il primo newyorkese DOC che ha trattato la questione di sponda è stato Spike Lee in La 25a ora, trovo significativo che il primo regista ad affrontare la questione direttamente, sia stato un inglese come Paul Greengrass con il suo “United 93”, uscito poco prima di beh, proprio lui, il solito Oliver Stone che da un argomento controverso, non può tenersi a distanza nemmeno per errore.
Ancora prima che venisse girato un solo fotogramma, “World Trade Center” era già oggetto di polemiche, perché beh, Oliver Stone gente, troppo comunista per la destra americana, troppo conservatore per i liberali. Mi sono divertito a definirlo Cimmero nel suo approccio, cavalcando la sua passione per Conan il Barbaro, per molto pubblico associare il regista di Platoon all’attentato dell’undici settembre era già qualcosa di anti americano. Il terrore serpeggiante da una parte e la speranza dall’altra, nel mezzo il nostro Oliviero, con il sospetto che potesse trattare la trama con il suo approccio da documentarista ma allo stesso tempo critico, se non proprio caustico, le polemiche sollevate da JFK hanno segnato tutta la carriera di Stone, quindi la sensazione generale prima dell’uscita era proprio questa, “World Trade Center” sarebbe stato un film che avrebbe puntato il dito, anche in direzione di una ferita ancora aperta, fatto nomi, cognomi e snocciolato dati e teorie. Stone ancora una volta, nel bene e o nel male, ha spiazzato tutti.
Spike Lee, Woody Allen, il suo insegnate all’università Martin Scorsese, raramente il nome di Oliver Stone viene fuori quando si parla di grandi registi newyorkesi, eppure il nostro fa parte della categoria a pieno titolo, anche per questo “World Trade Center” è un film così focalizzato sulla Grande Mela, così tanto da spiazzare, capisco che sia più complicato e sfaccettato di così, ma per amore di semplificazione diciamo che la sinistra davanti al film reagì più o meno con il più classico dei tu quoque, Oliver, fili mi? Più che altro in virtù della reazione da parte della destra, e chi se lo aspettava di sentire applausi, non per Fibra ma per Stone, da quella parte della barricata.
Da parte sua il nostro Oliviero non ha avuto dubbi, mi resta marchiata a fuoco nella mente la sua dichiarazione durante la promozione del film, cito più o meno a memoria ma il succo resta lo stesso: «Ci sarà il tempo per trattare la questione in modo critico, ma non è questo il momento per farlo», questa per me resta la stele di Rosetta per decriptare tutto il film.
Resta impossibile non citare il più americano degli artisti americani, anche quando parliamo di come l’arte abbia reagito agli eventi dell’undici settembre, va per forza ricordato Bruce Springsteen, tornato indietro come Han Solo nel momento in cui il suo Paese aveva più bisogno di lui, pronto a rimettere insieme la Banda (la E-Street Band) per sfornare uno dei suoi dischi migliori di sempre, l’ultimo indiscutibilmente bello della sua produzione in studio, in cui il pezzo che dà il titolo al disco, “The Rising”, non è nemmeno quello migliore del disco. Visto che devo trattenermi dal trasformare questo post in una recensione su quella meraviglia di album, mi limiterò a dire che “World Trade Center” è il “The Rising” di Oliver Stone, contiene il caldo abbraccio post tragedia, che solo ammantarsi idealmente in una bandiera ti può dare, ma anche tutto il senso della tragedia dal punto di vista di chi l’ha subita, di chi ha reagito o ci ha provato. Da questa equazione spariscono di colpo tutti gli altri, manca totalmente il punto di vista esterno, di attentatori, politici, e per una volta anche Presidenti, notevole per un regista che è stato etichettato (tra le altre cose) come il regista dei residenti della Casa Bianca. Ci sarà il tempo per trattare la questione in modo critico, ma non è questo il momento per farlo.
Chi prendi se hai bisogno di qualcuno che sappia essere drammatico e allo stesso tempo “Der popolo” come tuo protagonista? Facile, Nicolas Cage. Cioè facile un cazzo visto che l’unico che per fama è combinato peggio di Stone è proprio Master Cage, che qui mette su i baffi e la prova quella che di norma, il pubblico medio non si aspetta da lui, minimale, toccante, al servizio di storia e personaggi, anche fragile, un altro soldato al fronte per Stone, raccontato da uno che di soldati al fronte è davvero esperto.
“World Trade Center” inizia con il risveglio di New York in una mattina di settembre identica a tutte le altre, il sergente del Dipartimento di Polizia Portuale John McLoughlin (Nicola nostro) si sveglia, saluta moglie e figli e si reca al lavoro come ogni mattina, qui trova i colleghi Will Jimeno, Dominick Pezzulo, Antonio Rodrigues, Christopher Amoroso che hanno i volti di Michael Peña, Jay Hernandez, Armando Riesco e Jon Bernthal, facce americane che guarda caso, sono tutti Yankee di secondo o terza generazione, che a casa hanno mogli incinte (Allison Jimeno interpretata da Maggie Gyllenhaal) oppure nomi da scegliere per i nascituri, ma quella mattina cambia tutto e ho sempre trovato significativo il modo scelto da Stone per mostrare il disastro, ovvero non mostrandolo.
La polvere, la nevicata di fogli, sono tutte scene che abbiamo visto e rivisto in televisione, Stone porta i suoi protagonisti nel mezzo di quelle immagini, aggiungendo la parte che in tv nessuno ha mostrato mai, come il protagonista di Into the fire di Springsteen, McLoughlin guida i suoi all’interno delle torri poco prima del crollo e da qui in poi Stone utilizza il cinema per far arrivare il suo messaggio.
Se per il regista la guerra del Vietnam è l’orrido cancro nero che ha divorato il cuore del suo Paese imbrattandone i valori, i fatti dell’undici settembre sono la lunga coda strumentale di una politica estera aggressiva, che ad un certo punto ha richiesto il suo tributo di sangue, questa volta però sul suolo americano. Stone con questo film continua il suo viaggio nel cuore di tenebra della sua nazione, in maniera molto coerente con il suo cinema, ma con la delicatezza di chi a quei valori, in teoria, ci crederebbe, non per forza poco, per questo il suo undici settembre cinematografico parla chiaramente di questo, un giorno che ha mostrato cosa è in grado di fare l’umanità, del male certo, ma anche quella bontà nella tragedia che non a caso, è messa in campo non da qualche incravattato nella stanza dei bottoni, ma dai “colletti blu” che fanno il loro lavoro ogni giorno nella speranza di poter tornare a casa dalla famiglia la sera.
Per farlo Stone si prende delle libertà creative, in un film che va detto, non è stato sceneggiato da lui stesso ma da Andrea Berloff e quindi il solito livello di cura e ricerca del nostro Oliviero viene a mancare, tanto che la prima torre a crollare nel film è la torre sud e non la nord come accaduto per davvero, oppure Jason Thomas, interpretato da un attore bianco nel film, nero nella realtà insomma, non solo “World Trade Center” non è un documentario, ma non ha nemmeno il piglio da documentarista che di solito Stone imprime ai suoi lavori, ricordate il mantra, arriverà il momento, ma non è questo.
Questo per Stone è il momento di trascinarci sotto le rovine con i suoi colletti blu, dove una pistola surriscaldata può diventare una minaccia improbabile dopo che sei miracolosamente sopravvissuto al crollo di tonnellate di detriti sulla tua testa. Una battaglia per la sopravvivenza che si combatte sotto le macerie e a casa, con il dramma di chi resta come Donna McLoughlin (Maria Bello), perché per lunghi tratti, spogliato di tutto, “World Trade Center” è un racconto di resistenza umana, ovviamente americana, ma mi pare quasi superfluo sottolinearlo.
Critiche? Stone non è mai stato un narratore timido, i suoi messaggi li ha sempre fatti arrivare forti e chiari, le accuse di retorica sono sempre state dietro l’angolo, “World Trade Center” per l’approccio scelto è il titolo che espone più di tutti il fianco a tali critiche, non aiuta nemmeno il personaggio dell’ex marines Dave Karnes, che a differenza di altri non ha voluto prendere parte alla ricostruzione, quindi viene ritratto nel modo più cinematografico possibile.
Un ex militare incastrato in un ufficio, vede l’attentato in tv con i colleghi e dichiara loro: «Non so se già lo sapete ma questo Paese è in guerra» e se ne va, niente preavviso, niente lettera di dimissioni, prende la vecchia mimetica, fa un salto in chiesa per avvisare il suo reverendo di aver sentito la chiamata e via, va a New York, forse a piedi visto che sfoggia un incedere da Terminator. Non so voi, ma io vorrei uno spin-off sui colleghi di lavoro del sergente Dave Karnes.
Il sergente Dave Karnes, uno che si presenta proprio così, sono il sergente Dave Karnes e se qualcuno gli chiede qualcosa di più breve lui se ne esce con «Solo sergente», il personaggio che da solo riassume tutti i cortocircuiti di questo film e del Paese che Stone vuole raccontarci, perché si sarebbe potuto come dire, ingentilirlo, magari affidando il ruolo a qualcuno di più amichevole nell’aspetto, sparo un nome a caso, un Matt Damon giusto per citarne uno, invece secondo me il colpo di genio sta proprio nell’aver scelto Michael Shannon perché ok, è uno dei miei preferiti, quindi mi fa sempre piacere trovarlo nei film, però è innegabile che con il suo capoccione, il suo aspetto e il fatto – non tangenziale – che praticamente non sbatta mai le ciglia, tutto questo aiuta a renderlo sicuramente un personaggio positivo, uno che aiuta per senso del dovere, della responsabilità, per motivi religiosi o per formazione militare, poco importa, aiuta in maniera generosa senza che nessuno glielo abbia davvero chiesto, quindi bene, solo che farlo interpretare ad uno che potrebbe tranquillamente passare per un serial killer credibilissimo, ecco, per me resta al tempo stesso una critica, una soluzione satirica e una gran scelta di casting.
Ho già detto qualcosa sul resto del cast, tutti molto misurati e adatti all’atmosfera comunque inevitabilmente plumbea del film, penso questo fosse uno dei primi titoli a memoria mia dove ho visto recitare Michael Peña ma in generale resta uno di quei film da lanciare in testa ai soliti che parlano per frasi fatte e che criticano Nicolas Cage per la famigerata espressività (qualunque cosa voglia dire), gustatevi la sua prova qui, poi ne riparliamo.
A livello di incassi “World Trade Center” è andato anche bene, ovviamente le polemiche non si sono spente nemmeno dopo, con i cori della famiglie dei personaggi rappresentati nel film a schierarsi a favore o contro il lavoro fatto da Stone. Rivisto a distanza di tempo va detto che non ha perso la sua forza, resta allo stesso tempo un oggetto strano per la media dei lavori di Stone ma anche, conoscendo bene la sua poetica, il titolo giusto per iniziare ad utilizzare il cinema per elaborare, i fatti, il dramma, anche la Storia se necessario. Ci sarebbe stato il tempo per trattare la questione in modo critico, quel tempo per noi sarà tra sette giorni, qui sulla Bara, con il prossimo capitolo della rubrica, non mancate.
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